Colazione amena #4

storytelling
Una colazione letteraria fra scienza e storytelling

La cosa certa è che un giorno moriremo. Punto.

Sappiamo già come andrà a finire la storia della nostra vita, ma non per questo non possiamo definirla meno interessante né scarsamente meritevole di essere vissuta. Tuttavia, per sopravvivere e tirare a campare davanti all’insensatezza di questo Evento Insopportabile chiamato Morte siamo costretti a ricorrere a differenti tipi di rimedi, il più importante dei quali è la necessità di raccontare storie. Tante e belle per giunta.

Da sempre e incessantemente ogni essere umano si racconta storie e le racconta anche agli altri. Lo fa per un motivo ben specifico, antropologicamente parlando, ed è quello di essere parte di una Tribù. Certo, perché ai tempi delle società di caccia e raccolta essere fuori o dentro alla propria comunità di riferimento significava semplicemente morire o vivere.

Appartenere a una Tribù, a sua volta, costringeva ad accettare un insieme codificato di aspetti narrativi e formali per capire chi è fuori e chi dentro, chi ne fa parte e chi è escluso, chi sbaglia e chi si comporta in modo corretto. Le storie quindi costituivano l’identità collettiva.
A quelle stesse storie a propria volta ci si ispirava per costruire l’identità individuale. In un loop continuo che autogenerava valori e tradizioni, miti e leggende.

In realtà il cervello stesso è costituito per raccontarsi storie e anche in questo caso il motivo pare semplice: l’obiettivo è trasformare il caos e la desolazione della quotidianità in una narrazione semplice e fiduciosa in cui al centro c’è l’Io. Sono davvero troppe le informazioni che ogni secondo della nostra esistenza riceviamo attraverso i nostri sensi: odori, suoni, colori, imput sensoriali tattili, pericoli etc etc tutto assieme e tutto potenzialmente rilevante per la nostra sopravvivenza. Il cervello allora cosa fa? Sicuramente non può gestire tutto contemporaneamente e dunque filtra, taglia, semplifica. Esegue un lavorio infinito di vaglio e pulizia degli stimoli rilevanti mettendo al centro il soggetto stesso. In poche parole noi siamo gli eroi morali (e mortali) della nostra stessa narrazione. O meglio di tutti quei dettagli che il nostro cervello sceglie di conservare e di raccontarci.

Will Storr, La scienza dello storytelling, Codice Edizioni, 2020
storytelling
Ma la narrazione della colazione è essa stessa colazione? Francamente ne dubito.

Il cervello quindi utilizza tecniche narrative base che aiutano ad autoraccontarsi il mondo in cui ci interfacciamo. Sono tecniche fondate su principi prima di tutto biologici e fisiologici in quanto sono costituite dalle operazioni dei nostri sensi e poi filtrate da motivi psicologici ed evoluzionistici.

Allo stesso modo il narratore cerca il mutamento, il colpo di scena, la rottura della stabilità e gioca sulle motivazioni di un personaggio. Questi sono tutti aspetti che sollecitano la nostra mente e allo stesso tempo simulano quell’attività che essa stessa compie per interfacciarsi con il mondo esterno. Là dove il nostro vivere quotidiano è costantemente messo alla prova da fenomeni del tutto simili.

Il ruolo del cervello-narratore è quindi di non disperdere l’attenzione e mai come in questo periodo storico è arduo, in quanto sono ennemila i soggetti che aspirano a quindici secondi del nostro interesse: gli amici, i publicitari, i banner dei siti internet, i cartelloni luminosi lungo le strade, i titolisti scellerati dei giornali, le fascette promozionali dei libri, le notifiche degli smartphone, gli influencer, i romanzieri che di mestiere cercano di pubblicare il Grande Romanzo Americano, l’aspirante ballerino e la futura stella della musica leggera italiana. Tutti, possibilmente, con in tasca e nel proprio passato una giusta dose di storytelling da sciorinare al momento opportuno.
Insomma per sopravvivere pare che dobbiamo raccontarla e raccontarcela, anche quando non è strettamente necessario. Lo storytelling è quindi alla base della nostra natura di animale sociale e ora ne abbiamo capito il potenziale, decisamente performante e invadente, portandolo all’esasperazione.

Pubblicità e giornalismo, narrazione aziendale e sportiva, epica personale e civile: tutto avvolto dalla necessità di enfatizzare, abbellire e infiochettare. Là dove c’è un adv, una cronaca, una biografia o un’esperienza, c’è anche una storia da raccontare. Ma nella quasi totalità dei casi questo si traduce nel ricorso a modelli banali e conosciuti, autocompiacimenti e impostazioni predefinite, frasi fatte e pigre, parole inutili o considerazioni superflue.

Raccontare un fatto di cronaca locale, l’ultimo gol di Lasagna, il proprio viaggio fatto a San Pietroburgo o mangiare un semplice panino non è necessariamente sempre un’esperienza da raccontare, come chi lavora con le parole (come me) vuole far credere. Ma siamo chiamati a farlo e questo è un male? Non lo so. Credo di no ma a un patto.

MENO. Molto meno.

Il brutto, o il bello, infatti è che viviamo in una società di massa dove l’obiettivo è pescare a piene mani sui fenomeni che ci circondano, ribaltandone le intezioni originarie, riempliendoli di belle sperenze, svuotandoli di significato e rigurgitando il tutto nel momento in cui non si può più ottenerne nulla. L’importante, come tutti i fenomeni per cui si utilizza un termine in inglese, è non abusarne. Il rischio è sempre quello di stufarsene per raggiunta saturazione prima ancora di averlo apprezzato del tutto.

Detto questo, mentre io e S. finiamo la nostra colazione, sappiamo che un giorno moriremo tutti in un modo o nell’altro e quindi, nel dubbio e senza neanche troppo timore di eventuali spoiler, vi svelo già il finale.

Moriremo di storytelling
Moriremo di Storytelling. Il video di Stefano Andreoli.

 

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