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Una colazione letteraria fra scienza e storytelling
La cosa certa è che un giorno moriremo. Punto.
Sappiamo già come andrà a finire la storia della nostra vita, ma non per questo non possiamo definirla meno interessante né scarsamente meritevole di essere vissuta. Tuttavia, per sopravvivere e tirare a campare davanti all’insensatezza di questo Evento Insopportabile chiamato Morte siamo costretti a ricorrere a differenti tipi di rimedi, il più importante dei quali è la necessità di raccontare storie. Tante e belle per giunta.
Da sempre e incessantemente ogni essere umano si racconta storie e le racconta anche agli altri. Lo fa per un motivo ben specifico, antropologicamente parlando, ed è quello di essere parte di una Tribù. Certo, perché ai tempi delle società di caccia e raccolta essere fuori o dentro alla propria comunità di riferimento significava semplicemente morire o vivere.
Appartenere a una Tribù, a sua volta, costringeva ad accettare un insieme codificato di aspetti narrativi e formali per capire chi è fuori e chi dentro, chi ne fa parte e chi è escluso, chi sbaglia e chi si comporta in modo corretto. Le storie quindi costituivano l’identità collettiva.
A quelle stesse storie a propria volta ci si ispirava per costruire l’identità individuale. In un loop continuo che autogenerava valori e tradizioni, miti e leggende.
In realtà il cervello stesso è costituito per raccontarsi storie e anche in questo caso il motivo pare semplice: l’obiettivo è trasformare il caos e la desolazione della quotidianità in una narrazione semplice e fiduciosa in cui al centro c’è l’Io. Sono davvero troppe le informazioni che ogni secondo della nostra esistenza riceviamo attraverso i nostri sensi: odori, suoni, colori, imput sensoriali tattili, pericoli etc etc tutto assieme e tutto potenzialmente rilevante per la nostra sopravvivenza. Il cervello allora cosa fa? Sicuramente non può gestire tutto contemporaneamente e dunque filtra, taglia, semplifica. Esegue un lavorio infinito di vaglio e pulizia degli stimoli rilevanti mettendo al centro il soggetto stesso. In poche parole noi siamo gli eroi morali (e mortali) della nostra stessa narrazione. O meglio di tutti quei dettagli che il nostro cervello sceglie di conservare e di raccontarci.
Will Storr, La scienza dello storytelling, Codice Edizioni, 2020
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Il cervello quindi utilizza tecniche narrative base che aiutano ad autoraccontarsi il mondo in cui ci interfacciamo. Sono tecniche fondate su principi prima di tutto biologici e fisiologici in quanto sono costituite dalle operazioni dei nostri sensi e poi filtrate da motivi psicologici ed evoluzionistici.
Allo stesso modo il narratore cerca il mutamento, il colpo di scena, la rottura della stabilità e gioca sulle motivazioni di un personaggio. Questi sono tutti aspetti che sollecitano la nostra mente e allo stesso tempo simulano quell’attività che essa stessa compie per interfacciarsi con il mondo esterno. Là dove il nostro vivere quotidiano è costantemente messo alla prova da fenomeni del tutto simili.
Il ruolo del cervello-narratore è quindi di non disperdere l’attenzione e mai come in questo periodo storico è arduo, in quanto sono ennemila i soggetti che aspirano a quindici secondi del nostro interesse: gli amici, i publicitari, i banner dei siti internet, i cartelloni luminosi lungo le strade, i titolisti scellerati dei giornali, le fascette promozionali dei libri, le notifiche degli smartphone, gli influencer, i romanzieri che di mestiere cercano di pubblicare il Grande Romanzo Americano, l’aspirante ballerino e la futura stella della musica leggera italiana. Tutti, possibilmente, con in tasca e nel proprio passato una giusta dose di storytelling da sciorinare al momento opportuno.
Insomma per sopravvivere pare che dobbiamo raccontarla e raccontarcela, anche quando non è strettamente necessario. Lo storytelling è quindi alla base della nostra natura di animale sociale e ora ne abbiamo capito il potenziale, decisamente performante e invadente, portandolo all’esasperazione.
Pubblicità e giornalismo, narrazione aziendale e sportiva, epica personale e civile: tutto avvolto dalla necessità di enfatizzare, abbellire e infiochettare. Là dove c’è un adv, una cronaca, una biografia o un’esperienza, c’è anche una storia da raccontare. Ma nella quasi totalità dei casi questo si traduce nel ricorso a modelli banali e conosciuti, autocompiacimenti e impostazioni predefinite, frasi fatte e pigre, parole inutili o considerazioni superflue.
Raccontare un fatto di cronaca locale, l’ultimo gol di Lasagna, il proprio viaggio fatto a San Pietroburgo o mangiare un semplice panino non è necessariamente sempre un’esperienza da raccontare, come chi lavora con le parole (come me) vuole far credere. Ma siamo chiamati a farlo e questo è un male? Non lo so. Credo di no ma a un patto.
MENO. Molto meno.
Il brutto, o il bello, infatti è che viviamo in una società di massa dove l’obiettivo è pescare a piene mani sui fenomeni che ci circondano, ribaltandone le intezioni originarie, riempliendoli di belle sperenze, svuotandoli di significato e rigurgitando il tutto nel momento in cui non si può più ottenerne nulla. L’importante, come tutti i fenomeni per cui si utilizza un termine in inglese, è non abusarne. Il rischio è sempre quello di stufarsene per raggiunta saturazione prima ancora di averlo apprezzato del tutto.
Detto questo, mentre io e S. finiamo la nostra colazione, sappiamo che un giorno moriremo tutti in un modo o nell’altro e quindi, nel dubbio e senza neanche troppo timore di eventuali spoiler, vi svelo già il finale.